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“Bronzi di Riace: scienza, silenzi istituzionali e responsabilità pubbliche”

Si legge dal post di @daniele.castrizio:

 

 

“Bronzi di Riace: scienza, silenzi istituzionali e responsabilità pubbliche”

Negli ultimi mesi, alcuni organi di stampa hanno rilanciato con grande clamore l’ipotesi secondo cui i Bronzi di Riace avrebbero un’origine siciliana. In particolare, è stata avanzata la teoria che le statue non siano state ritrovate nel Mar Ionio, al largo di Riace, nel 1972, ma nelle acque siciliane di Brucoli, a circa 90 metri di profondità. Questo racconto alternativo ha alimentato il sensazionalismo mediatico, culminando in uno speciale RAI1 che, purtroppo, ha di fatto legittimato una narrazione priva di fondamento scientifico.
I dati archeologici e scientifici a disposizione rendono del tutto irricevibile questa ipotesi. Dal punto di vista dell’identificazione delle statue e della loro attribuzione storico-artistica, la teoria siciliana contrasta con decenni di ricerche documentate e rigorose, ma, soprattutto, con i dati scientifici assodati. Ma anche sul piano del presunto ritrovamento a Brucoli, la tesi non regge: le concrezioni presenti sui Bronzi – frutto di decenni di deposito marino in acque poco profonde – sono incompatibili con una permanenza a 90 metri di profondità. Chi ha studiato anche solo i fondamenti della conservazione subacquea comprende l’assurdità di tali affermazioni.
Più grave, tuttavia, è il silenzio assordante del Ministero della Cultura. A questo silenzio si è aggiunto il tacito avallo ministeriale concesso allo speciale televisivo. Nei successivi interventi in RAI sono stati interpellati, a mio avviso non caso, solo studiosi che, pur non essendo specialisti dei Bronzi di Riace, si sono espressi con disinvoltura, ribadendo che Bronzi non si sa nulla, ma dimostrando anche di non aver neppure letto la bibliografia degli ultimi 25 anni sul tema. È difficile non cogliere, in questo quadro, una precisa scelta politica: quella di marginalizzare le competenze scomode, indipendenti, fuori dai giochi accademici consolidati.
Il mio problema, non essendo io un televenditore, non riguarda la difesa personale della mia ipotesi interpretativa (il mio mestiere è studiare, scrivere, pubblicare, presentare i risultati a convegni internazionali: fatto!), ma il modo in cui la burocrazia ministeriale ha sempre agito: favorendo “amici” accademici, spesso interni a precise cordate, e ostacolando sistematicamente studiosi universitari liberi, privi di protezioni baronali. Un sistema che non premia il merito, ma la fedeltà. Emblematiche in tal senso le ripetute dichiarazioni del Direttore generale dei Musei, Massimo Osanna, secondo cui “sui Bronzi di Riace non si sa nulla”. Una frase che, agli occhi degli specialisti, suona come un insulto a chi quei Bronzi li ha studiati con serietà fin dalla loro scoperta: da Stucchi a Paribeni, da Giuliano a Di Vita, da Moreno a Roma, senza dimenticare i contributi contemporanei di Brinkmann e Hada, tralasciando il mio trentennale impegno.
Quando la burocrazia ministeriale considera i beni archeologici una proprietà privata – o meglio, burocratica – allora non resta che invocare un atto di responsabilità. Le dimissioni del Direttore Generale dei Musei non sarebbero un gesto simbolico, ma il primo passo verso un controllo più serio sulle nomine dei direttori di musei, grandi e piccoli, per verificarne le competenze reali.

 

 

 

 

 


Un mio parrocchiano, tempo fa, mi ha chiesto: “Ma chi te lo fa fare? Ci guadagni qualcosa?” È stata una domanda che mi ha colpito. La risposta tocca il cuore del mio essere docente universitario. Perché il mio impegno di ricerca, il mio sforzo costante di divulgazione – ormai entrambi quasi sempre autofinanziati – non può finire sepolto in libri che nessuno legge. Del resto, in Italia esiste il malvezzo accademico di non citare chi è inviso al proprio barone. Spesso, chi studia lo fa solo a beneficio di se stesso. È un problema culturale profondo, e drammatico.
I beni archeologici italiani hanno bisogno di una conversione a 180 gradi. Serve una svolta culturale che assuma i criteri della “public history”, che promuova una divulgazione scientificamente rigorosa, ma accessibile, dell’arte e dell’architettura antica. So bene che per una burocrazia mediocre questo compito è impossibile da immaginare: troppo faticoso, troppo rischioso, troppo innovativo. È molto più semplice esercitare un potere autocratico e rinchiudersi nella propria fortezza di gomma, elargendo privilegi agli “amici”. Ma l’Italia non può rassegnarsi alla mediocrazia. Farlo significa condannare alla rovina il nostro patrimonio culturale. Che la burocrazia ministeriale si renda conto che non può esautorare la ricerca accademica dalla valorizzazione e dalla divulgazione del patrimonio culturale! Se il Ministro della Cultura esiste, se ha voce e volontà, è il momento di battere un colpo.

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